I grandi concerti rap stanno diventando raduni di ricchi?

“Non possiamo ancora essere poveri. Perché tutto è inclusivo a parte i posti esclusivi, no?”, dice Marracash, lucido e tagliente come una lama, nella coda di “Cosplayer”. L’impennata del costo dei biglietti per i concerti è un tema incandescente. Lo è da decenni, non certo da ieri, come ci ricorda lo sguardo scioccato di Kurt Cobain, nel 1993, in un'intervista su Mtv, quando gli comunicarono che alcuni artisti pop come Madonna facessero pagare dai 50 ai 75 dollari per assistere a una propria performance. Negli anni la situazione è andata notevolmente a peggiorare. Secondo un’indagine Pollstar, diffusa a inizio anno e su cui il New York Times ha portato avanti diversi approfondimenti, tra il 1981 e il 2012 il costo dei biglietti è aumentato di quasi il 400%. Non c’è un concerto di alto livello, oggi, come dimostrano anche i recenti casi dei Radiohead a Bologna o di The Weeknd a San Siro, per cui i fan non si lamentino del costo dei biglietti per accedere a questi eventi, che però vanno quasi sempre sold out. È il gioco della domanda e dell’offerta: finché ci sarà chi è disposto a pagare quelle cifre per assistere a quei concerti, il vento soffierà in quella direzione.
Il fulcro di questa riflessione, però, è un altro e ha più a che fare con la tipologia di pubblico che viene inevitabilmente calamitata da un processo di questo tipo. Ha più a che fare con la sociologia che con l’economia. Ed è un discorso che è necessario portare avanti, in particolare, sul rap, un genere che ha sempre voluto rappresentare fasce di società che oggi, paradossalmente, ad ascoltare i grandi nomi di quel mondo, non possono più andare perché “tagliate via” dal costo di accesso. Un cortocircuito totale. Canzoni che mettono al centro la strada, il riscatto sociale, la fame di rivincita, privazioni, violenza, ma anche rinascita, tutti quei temi cari agli artisti rap e alla cultura hip hop, oggi, in determinati contesti, da quale tipologia di fan vengono cantate, se un biglietto per assistere al live di un big ha un prezzo quasi proibitivo? Di certo non da chi quelle storie di povertà può averle realmente vissute sulla pelle e che al massimo potrà riempire gli spazi in fondo o i più lontani di una grande location.
I concerti rap, in particolare quelli internazionali, stanno diventando raduni di ricchi? Molti artisti, che per molte ragazze e ragazzi sono simboli di rivincita sociale, dovrebbero interrogarsi sul disallineamento che sta avvenendo tra ciò che si canta e chi si vorrebbe rappresentare, e chi effettivamente alla fine sta sotto il palco, magari nel pit esclusivo. Il contesto del live elitario spesso crea una distanza che a sua volta può minare l’autenticità di chi si esibisce. Alcuni potrebbero obiettare: molti rapper ormai celebrano lusso, brand e ricchezza, forse i live costosi non sono incoerenti, ma coerenti con la parabola del genere nel mainstream. E questo effettivamente è un ulteriore nodo che, però, non sfugge a una sfida: decidere se difendere l’accessibilità di un genere, che ha precise radici tra le fasce meno abbienti, o accettare la trasformazione del rap in musica, che provocatoriamente, possiamo definire “d’élite”. L’Italia, in particolare negli ultimi anni, ha ospitato alcuni dei massimi esponenti della scena urban: Travis Scott, Tyler, The Creator, Kendrick Lamar, 50 Cent, Kanye West (nella versione listening party) e recentemente Drake.
Quanti sono stati realmente accessibili per ampie fasce della popolazione? Eppure molti di questi artisti, nei loro brani, hanno parlato o parlano di chi sta ai margini. Tyler, The Creator, che questo problema lo ha capito prima di tanti, anche per la promozione del suo ultimo album “Don't Tap the Glass”, ha messo in piedi dei pop-up concert con un costo medio di dieci dollari. Certo, i posti erano limitati e il live era ridotto, ma sono stati un piccolo segnale. E se il futuro del rap passasse nuovamente dai mitici block party, fatti per la gente, nei quartieri di origine? Se oggi un nome importante e mainstream decidesse di organizzarne uno, con un biglietto a ingresso simbolico, per riconnettersi con quel pubblico popolare che lo ha sempre sostenuto, lascerebbe un segno, un’impronta.